Il duetto tra Luciano Pavarotti e George Michael, nella canzone di Elton John e Bernie Taupin (scritta nel 1974), al «Pavarotti & Friends 2000 concert for Cambodia and Tibet».
Riportiamo in seguito i versi italiani con una traduzione in greco.
[...]
È tardi ormai, come farò a salvarmi
Ci proverò, ma tu non cambierai
Che errore è mai, cercare di aiutarti
Ma tu vai, e resto qui, senza me
Είναι πια αργά, πώς να με σώσω
Θα δοκιμάσω, αλλά εσύ δεν θ' αλλάξεις
Πού είναι άραγε το λάθος, να γυρεύω να σε βοηθήσω
Αλλά εσύ φεύγεις, και μένω εδώ, χωρίς εμένα
[...]
I can't find oh, the right romantic line
... non vorrei, ma non resisto più
... δεν θα ήθελα, αλλά δεν αντέχω άλλο
don't discard me just because you think I mean your harm
... io respirerò e d'amore rinascerò
... εγώ θ' ανασαίνω και από αγάπη θα ξαναγεννηθώ
Fa che non sia mai più così
Se quando cerco me
Ritrovo un uomo che non c'è
Continuerò a cercarmi fino a che,
Mi troverò
E ogni giorno sarà come se rinascessi un po'
Κάνε να μην είναι ποτέ πια έτσι
Αν όταν γυρεύω εμένα
Βρίσκω έναν άνθρωπο που δεν υπάρχει
Θα συνεχίσω να με αναζητώ μέχρι
Να βρω τον εαυτό μου
Και κάθε μέρα θα είναι σαν να ξαναγεννιέμαι λίγο
but losing ev'rything is like the sun going down on me
Natale,
Capodanno, Befana, quando verso il quindici di dicembre comincio a
sentire parlare di feste, tremo, come a sentir parlare di debiti da
pagare e per i quali non ci sono soldi. Natale, Capodanno, Befana,
chissà perché le hanno messe tutte in fila, così vicine, queste
feste. Così in fila, non sono feste, ma, per un poveraccio come me,
sono un macello. E qui non si dice che uno non vorrebbe festeggiare
il Santo Natale, il primo dell’anno, l’Epifania, qui si vuol dire
che i commercianti di roba da mangiare si appostano in quelle tre
giornate come tanti briganti all’angolo della strada, così che,
alle feste, uno ci arriva vestito e ne esce nudo. Forse ai tempi che Berta filava,
Natale, Capodanno e Befana erano feste sul serio, modeste ma sincere:
ancora non c’erano l’organizzazione, la propaganda, lo
sfruttamento. Ma dagli, dagli e dagli, anche i più sciocchi si sono
accorti che con le feste si poteva fare la speculazione; e così,
adesso la fanno. Feste per i furbi, dunque, che vendono roba da
mangiare; non per i poveretti che la comprano. E tante volte ho
pensato che per il pasticciere, per il pollarolo, per il macellaio,
quelle sono feste davvero, anzi feste doppie: feste perché feste e
poi feste perché in quelle feste loro vendono dieci volte tanto
quanto nei giorni che non c’è festa. E così, mentre il
disgraziato festeggia le feste a mezza bocca, con la borsa vuota e la
tavola scarsa, quelli le festeggiano sul serio, con la borsa piena e
la tavola traboccante.
Del
resto, per farvi capaci che ho detto la verità,
guardate la strada dove ho la mia bottega di cartolaio. In fila, uno
dopo l’altro, ci sono Tolomei il pizzicagnolo, De Santis il
pollarolo, De Angelis che ha il vapoforno, e Crociani che ha la
fiaschetteria. Fateci caso, che vedete? Montagne di formaggi e di
prosciutti, stragi di polli e gallinacci, sacchi pieni di tortellini,
piramidi di fiaschi e di bottiglie, luce e splendore, gente che va e
gente che viene, dalla mattina alla sera, senza interruzione, come in
un porto di mare, nelle prime quattro botteghe. Nella mia
cartolibreria, invece, silenzio, ombra, calma, la polvere sul banco,
e, sì e no, qualche ragazzino che viene a comprarsi il quaderno,
qualche donna che entra a prendersi la boccetta d’inchiostro per
fare i conti della spesa. E io rassomiglio alla mia bottega, vestito
di uno zinale nero, magro, affamato, con addosso l’odore della
polvere e della carta, sempre acido, sempre pensieroso; e loro,
invece, De Angelis, Tolomei, Crociani, De Santis, sono tutto il
ritratto dei loro affari che vanno tanto bene, belli, rossi, grassi,
con la voce sicura, sempre allegri, sempre strafottenti. Eh, ho
sbagliato mestiere; e con la carta stampata o bianca, c’è poco da
fare; e ne consumano più loro per involtare pacchi che io per far
leggere o scrivere.
Basta,
qualche giorno prima di Capodanno, mia moglie, una mattina, mi fa:
"Senti, Egisto, che bell’idea... Crociani ha detto che a
Capodanno ci riuniamo tutti e cinque noialtri commercianti di questa
parte della strada, e facciamo un picche nicche per la fine
dell’anno."
"Sì,
tradizionale, ma in questo modo: ciascuno porta qualche cosa e così
ciascuno offre a tutti e tutti offrono a ciascuno."
"Questo
è il picche nicche?"
"Sì,
questo è il picche nicche... De Angelis ci metterà i tortellini,
Crociani il vino e lo spumante, Tolomei gli antipasti, De Santis i
tacchini..."
"E
noi?"
"Noialtri
dovremmo portare il panettone."
Non
dissi nulla. E lei insistette: "Non è una bella idea questo
picche nicche?... Allora gli dico che ci stiamo?"
Stavo
seduto al banco, scartando un pacco di cartoline d’auguri natalizi.
Dissi, finalmente:
"Per
me, mi pare che questo picche nicche non sia tanto giusto... De
Angelis i tortellini ce li ha a bottega, e così Crociani il vino,
Tolomei gli antipasti e De Santis i tacchini... ma io che ci ho? Un
corno... il panettone debbo comprarlo."
"Che
c’entra?... anche loro, la roba la pagano, mica gli cresce in
bottega... che c’entra... lo vedi che sei sempre il solito... vuoi
sempre fare il difficile, ragionare, fare il sottile... e poi ti
lamenti che le cose non ti vanno bene."
Insomma
discutemmo un bel po’ e finalmente io tagliai corto, dicendo: "Va
bene, digli che ci sto al loro picche nicche... porteremo il
panettone." Lei si raccomandò, allora, che lo portassi bello
grosso, per non fare cattiva figura: due chili, almeno. E io promisi
il panettone bello e grosso.
L’ultimo
dell’anno lo passai, al solito, a vendere cartoline di auguri e
figurine di carta per i presepi. Intanto, i miei vicini vendevano
gallinacci e polli, tortellini e tagliatelle, cassette di liquori e
di vini pregiati, formaggi e prosciutti. Era una bella giornata e io,
dal fondo del mio negozietto nero, vedevo, di fuori, passare nel sole
le donne cariche di roba. Era proprio una bella giornata, da
Capodanno romano, con un cielo turchino, duro, che pareva il
cristallo fino fino e tutte le cose che sembravano dipinte su questo
cristallo, con i loro colori, A mia moglie, la sera, chiudendo
bottega, dissi: "È inutile che mangiamo... tanto la mangiata la
facciamo a mezzanotte con il picche nicche... non fosse altro che il
panettone che porto io... c’è da mangiare per cento." Ed
effettivamente, lo scatolone del panettone era proprio enorme. Però
dissi a mia moglie che non se ne occupasse: l’avrei portato io.
Alle
dieci e mezzo, entrammo nel portone di Crociani che aveva la casa
proprio sopra il negozio. I Crociani credo che ci abitassero da più
di cinquanta anni: ci aveva abitato il nonno quando la fiaschetteria
non era che un’osteriola dove gli operai andavano a bere il
quintino; il padre che l’aveva ingrandita vendendo il vino
all’ingrosso; adesso, ci stava Adolfo, il figlio che, oltre al
vino, vendeva anche il whisky e gli altri liquori stranieri. Era uno
di quegli appartamenti malandati della vecchia Roma, tutto corridoi e
stanzette; ma Crociani, un giovanotto con le guance gonfie e gli
occhi piccoli, ci guidò con orgoglio nella stanza da pranzo: salute
che bellezza. Tutti mobili nuovi, di mogano lucido, con le maniglie
di ottone e le zampette sottili di acero bianco. L’ultima volta che
l’avevo veduta, quella stanza, era ancora come in passato: con un
tavolone andante, le seggiole di paglia, le fotografie alle pareti,
e, nel vano della finestra, la macchina da cucire. Tutto questo,
adesso, non c’era più: oltre a quei mobili, notai un grande quadro
dorato con un tramonto sul mare; una radio enorme che serviva anche
da bar; soprammobili di porcellana in forma di donnine nude,
pagliaccetti, cagnolini; e, sulla tavola preparata, un servizio di
porcellana dei più fini, stampato a fiorami rosa. "L’ho
comprata all’Argentina" mi disse Crociani indicando la stanza,
"indovina un po’ quanto l’ho pagata." Dissi una cifra e
lui me la triplicò, gonfiandosi per la soddisfazione. Intanto
arrivava nuova gente; e presto fummo al completo.
Chi
c’era? C’era Tolomei, un pezzo di giovanotto coi baffi, che,
quando pesa sulla bilancia l’affettato, dice alle serve: "Lascio?";
c’era De Angelis del vapoforno, un ometto piccolo, con la faccia da
minchione: ma lui invece è un furbo che da ragazzino andava in giro
con la sporta e adesso invece vende tagliatelle a tutto il quartiere;
c’era De Santis, il pollarolo, che è rimasto contadino come al
tempo che veniva a Roma col panierino delle uova di giornata: con la
faccia senza peli, grigia e massiccia come una pagnotta e la parola
greve della gente del viterbese. C’erano le mogli loro, tutte
infronzolate, ma i figli non c’erano, perché, come disse Crociani
offrendo il vermut, questa era una serata tra commercianti, per
salutare l’anno che veniva, anno commerciale anzitutto, durante il
quale tutti dovevano fare quattrini a palate. Dico la verità,
vedendoli seduti a tavola, mi piacevano anche meno di quando li
vedevo sulle soglie delle botteghe: durante il commercio,
nascondevano la soddisfazione e, magari, anche, si lagnavano; ma
adesso che si trattava di far festa i clienti non c’erano, la
soddisfazione gli schizzava fuori dai pori.
Ci
mettemmo a tavola che erano le undici e attaccammo subito gli
antipasti di Tolomei. Qui cominciarono gli scherzi: chi chiedeva a
Tolomei se la mortadella era di vero suino, chi gli ricordava la
frase: "Lascio?" che lui diceva tanto spesso. Ma erano
tutti scherzi con la zampa di velluto, tra gente che se la intendeva
e si rassomigliava: se avessi scherzato io, che quegli antipasti me
li permettevo di rado, penso che gli avrei lasciato l’unghiata; e
perciò preferii mangiare e tacere. Ai tortellini si fece un po’ di
silenzio, anche perché il brodo scottava e tutti soffiavano nei
cucchiai. Ma qualcuno osservò che questi erano tortellini veramente
pieni e non mezzo vuoti come quelli che erano in vendita normalmente,
e tutti ci fecero una risata. Stetti zitto anche questa volta e mi
presi due scodelle colme di minestra per riscaldarmi la pancia.
Vennero, finalmente, due tacchini arrosto grandi come due struzzi; e,
anche per la grandezza, tutti si misero in allegria e cominciarono a
punzecchiare il pollarolo chiedendogli dove li avesse prenotati quei
due fenomeni della natura, se dal noto De Santis che forniva tutta
Roma. Ma lui, che era contadino e non capiva lo scherzo rispose che,
quei due tacchini, lui li aveva scelti tra cento e li aveva
ingrassati con le sue mani, tenendoli in casa.
Anche
questa volta non dissi nulla ma scelsi con cura una coscia grande
come un monumento, e poi tre fette di ripieno, e poi un altro pezzo
quadrato che non so dove l’avessero staccato, ma era buono anche
quello. Mangiavo tanto di gusto che qualcuno osservò "Guarda
Egisto come divora... eh, non ti succede tutti i giorni di mangiare
un tacchino simile, Egisto." Risposi a bocca piena: "Proprio
così"; e dentro di me pensai che, per una volta almeno, avevo
detto la verità.
Intanto
i fiaschi di Crociani circolavano, e tutte quelle facce intorno la
tavola lustravano, rosse e brillanti, come una batteria di rame da
cucina. Salvo, però, quelle frasi sulla roba da mangiare, nessuno
parlava veramente perché, in fondo, non avevano nulla da dirsi. Il
solo che ci avesse qualche cosa da dire ero io, appunto perché, al
contrario di loro, gli affari mi andavano male, e questo mi faceva
riflettere, e la riflessione, se non riempie la pancia, almeno
riempie il cervello. Finiti i tacchini, venne un’insalata che
nessuno toccò, poi il formaggio e la frutta, e quindi Crociani disse
che era mezzanotte e andò in giro per la tavola mostrando la
bottiglia di spumante, che, come fece notare, era autentico francese,
di quello che lui vendeva tremila lire e più la bottiglia. Sul
punto, però, di stappare lo spumante, tutti gridarono: "Egisto,
tocca a te, facci vedere il tuo panettone."
Io
mi alzai, andai in fondo alla stanza, presi la scatola del panettone,
tornai a sedere e lo scartai con solennità. Dissi, tanto per
cominciare: "Questo è un panettone proprio speciale... ora
vedrete." Aprii la scatola, misi la mano dentro e cominciai la
distribuzione: una boccetta d’inchiostro, una penna, un quaderno e
un abbecedario per uno, ad ognuno degli uomini; per le donne, come
dissi, mi scusavo, non ci avevo pensato. Davanti a questa
distribuzione, tutti tacevano sbalorditi; non capivano, anche perché
erano intontiti dal vino e dal mangiare.
Finalmente,
De Angelis disse: "Ma, Egisto, abbi pazienza, che è sto
scherzo? Mica siamo bambini che andiamo a scuola." De Santis,
che pareva abbrutito, domandò: "E il panettone dov’è?"
Io risposi, alzato in piedi: "Questo è un picche nicche, non è
vero? Ciascuno ha portato la roba che ci aveva a bottega, non è
vero... e io vi ho portato quello che ci avevo: inchiostro, penna,
quaderno, abbecedario."
"Ma
che" disse ad un tratto Tolomei, "sei scemo o ci fai?"
"No"
risposi, "non sono scemo ma cartolaio... tu hai portato gli
antipasti che io sono costretto a comprarti tutto l’anno... io ho
portato quello che ci avevo e che tu mai ti sogni di comprare".
De Angelis disse, conciliante: "Basta, mettiti a sedere, non
facciamoci cattivo sangue." E questa fu la proposta che venne
accolta. Saltarono fuori alcuni dolci, le bottiglie furono stappate,
e tutti bevvero.
Ma,
come notai, al brindisi nessuno volle bere alla mia salute. Allora mi
alzai e dissi, il bicchiere in mano: "Visto che non volete bere
alla mia salute, il brindisi lo faccio io... Che possiate dunque,
durante questo anno, leggere un po’ più, anche se, per caso,
doveste vendere un po’ meno." Ci fu un coro di proteste e poi
Crociani, che aveva bevuto più degli altri, si inferocì e gridò:
"Ma piantala, iettatore... ci porti sfortuna... vendi i libri a
chi ti pare ma non venirci a seccare a noi... anzi, guarda, è meglio
che te ne vai... tanto, ormai, il cenone l’hai mangiato."
"Allora"
risposi "tu non vuoi bere alla salute del commercio dei libri?"
"Ma
piantala, buffone, scemo, ignorante, pagliaccio." Ora tutti mi
ingiuriavano; io rispondevo per le rime, calmo, sebbene mia moglie mi
tirasse per la manica; il più cattivo di tutti era proprio il
padrone di casa che insisteva affinché ce ne andassimo.
Insomma,
non so come, mi ritrovai in strada, con un gran freddo, e con mia
moglie che piangeva e ripeteva: "Lo vedi che hai fatto... ora ci
siamo fatti dei nemici e l’anno che verrà sarà peggio di quello
che è finito." Così,
discutendo, tra i botti delle lampadine fulminate e i cocci che
volavano dalle finestre, ce ne tornammo a casa.
«È opinione generale che NikosKazantzakis sia stato scomunicato dal Santo Sinodo della Chiesa di Grecia. No. Non c’è stata una scomunica, lo dico e lo scrivo da trent’anni a questa parte».
Pàtroklos Stavrou [Πάτροκλος Σταύρου], la voce più autorevole sulla persona e l’opera dell’autore cretese, nell’appendice dell’edizione greca del 2010 de «L’ultima tentazione» (p. 538).