Από τα ποιήματα του Giuseppe Ungaretti (1888-1970), που επέλεξε και μετέφρασε στα ελληνικά ο Φοίβος Πιομπίνος, και κυκλοφορήθηκαν από τον Ίκαρο, σε δίγλωσση έκδοση και με σημειώσεις του ίδιου του ποιητή, το 2001.
domenica 21 febbraio 2016
«Il porto sepolto» di Ungaretti
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«La camera in attesa» di Pirandello
Το διήγημα του Luigi Pirandello (1867-1936) «La camera in attesa» [«Δωμάτιο σε αναμονή»] δημοσιεύθηκε για πρώτη φορά το 1916 και αργότερα συμπεριλήφθηκε στη
συλλογή διηγημάτων «Novelle per un anno» [«Διηγήματα για ένα χρόνο»].
Το βρήκα εδώ
(βλ. επίσης εδώ
κι εδώ)
και το αναδημοσιεύω ενσωματώνοντας τρία ηχητικά αρχεία ανάγνωσης του κειμένου (audiolibro).
Προϋποθέτει έμπειρο γνώστη της ιταλικής (livello avanzato),
που κατέχει, όσον αφορά στη γραμματική, τον αόριστο (passato remoto) και την υποτακτική (congiuntivo). Όσον αφορά στο λεξιλόγιο, το πρώτο μέρος του διηγήματος (οι πρώτες δέκα περίπου
παράγραφοι), όπου περιγράφεται το δωμάτιο, είναι αρκετά απαιτητικό, λόγω της
συχνής χρήσης επιθέτων, ενώ το υπόλοιπο κείμενο δεν περιλαμβάνει πολλές δύσκολες
λέξεις.
ΠΓ
* * *
Si dà pur luce ogni mattino a questa
camera, quando una delle tre sorelle a turno viene a ripulirla senza guardarsi
attorno. L’ombra, tuttavia, appena le persiane e le vetrate della finestra sono
richiuse e raccostati gli scuri, si fa subito cruda, come in un sotterraneo; e
subito, come se quella finestra non sia stata aperta da anni, il crudo di
quest’ombra s’avverte, diventa quasi l’alito sensibile del silenzio sospeso
vano sui mobili e gli oggetti, I quali, a lor volta, par che rimangano
sgomenti, ogni giorno, della cura con cui sono stati spolverati, ripuliti e
rimessi in ordine.
Il calendario a muro presso la finestra è
certo che rimane col senso dello strappo d’un altro fogliolino, come se gli
paja una inutile crudeltà che gli si faccia segnar la data in quell’ombra vana
e in quel silenzio. E il vecchio orologio di bronzo, in forma d’anfora, sul
piano di marmot del cassettone, pare che avverta la violenza che gli fanno
costringendolo a staccare ancora là dentro il suo cupo tic-tac.
Sul tavolino da notte, però, la boccetta
dell’acqua, di cristallo verde dorato, panciuta, incappellata del suo lungo
bicchiere capovolto, pigliando di tra gli scuri accostati della finestra
dirimpetto un filo di luce, sembra ridere di tutto quello sgomento diffuso
nella camera.
C’è, in realtà, alcunché di vivo e d’arguto
su quel tavolino da notte.
Il riso della boccetta dell’acqua viene sí
senza dubbio dal filo di luce, ma forse perché con questo filo di luce quella
boccetta panciuta può scorgere su la lucida lastra di bardiglio le smorfie
delle due figurine d’una scatola di fiammiferi posata lí da quattordici mesi
ormai, perché sia pronta a un bisogno ad accendere la candela, anch’essa da
quattordici mesi confitta nella bugia di ferro smaltato, in forma di trifoglio,
col manichetto e il bocciuolo d’ottone.
Nell’attesa della fiamma che deve
consumarla, s’è ingiallita quella candela sul trifoglio della bugia, come una
vergine matura. E c’è da scommettere che le due figurine monellescamente
smorfiose della scatola di fiammiferi la paragonino alle tre sorelle stagionate
che vengono un giorno per una a ripulire e a rimettere in ordine la camera.
Via, benché intatta ancora, povera vergine
candela, dovrebbero cambiarla le tre sorelle, se non proprio ogni giorno come
fanno per l’acqua della boccetta (che anche perciò è cosí viva e pronta a
ridere a ogni filo di luce), almeno a ogni quindici giorni, a ogni mese, via!
per non vederla cosí gialla, per non vedere in quel giallore i quattordici mesi
che sono passati senza che nessuno sia venuto ad accenderla, la sera, su quel
tavolino da notte.
È veramente una dimenticanza deplorevole,
perché non solo l’acqua della boccetta, ma cambiano tutto quelle tre sorelle:
ogni quindici giorni le lenzuola e le foderette del letto, rifatto con amorosa
diligenza ogni mattina come se davvero qualcuno vi abbia dormito; due volte la
settimana, la camicia da notte, che ogni sera, dopo rimboccate le coperte, vien
tratta dal sacchetto di raso appeso col nastrino azzurro alla testata della
lettiera bianca, e distesa sul letto con la falda di dietro debitamente
rialzata. E han cambiato, oh Dio, finanche le pantofole davanti la poltroncina
a piè del letto. Sicuro: le vecchie buttate via, dentro il comodino, e al loro
posto, lí su lo scendiletto, un pajo di nuove, di velluto, ricamate dall’ultima
delle tre. E il calendario? Quello lí, presso la finestra, è già il secondo.
L’altro, dell’anno scorso, s’è sentito strappare a uno a uno tutti i giorni dei
dodici mesi, uno ogni mattina, con inesorabile puntualità. E non c’è pericolo
che la maggiore delle tre sorelle, ogni sabato alle quattro del pomeriggio, si
dimentichi d’entrare nella camera per ridar la corda a quel vecchio orologio di
bronzo sul cassettone, che con tanto risentimento rompe il silenzio
ticchettando e muove le due lancette sul quadrante piano piano, che non si
veda, come se voglia dire che non lo fa apposta, lui, per suo piacere, ma
perché forzato dalla corda che gli dànno.
Le due figurine smorfiose della scatola
evidentemente non vedono, come possono vederlo il vecchio orologio di bronzo
col bianco occhio tondo del quadrante e il calendario dall’alto della parete
col numero rosso che segna la data, il lugubre effetto di quella camicia da
note stesa lí sul letto e di quelle due pantofole nuove in attesa su lo
scendiletto davanti la poltroncina.
Quanto alla candela confitta lí sul
trifoglio della bugia, oh essa è cosí diritta e assorta nella sua gialla
rigidità, che non si cura del dileggio di quelle due figurine smorfiose e del
riso della panciuta boccetta, sapendo bene che cosa sta ad attendere lí, ancora
intatta, cosí ingiallita.
Che cosa?
Il fatto è che da quattordici mesi quelle
tre sorelle e la loro madre inferma credono di potere e di dovere aspettare
cosí il probabile, probabile, ritorno
del fratello e figliuolo Cesarino, sottotenente di complemento nel 25o
fanteria, partito (ormai son piú di due anni) per la Tripolitania e colà
distaccato nel Fezzan.
Da quattordici mesi, è vero, non hanno piú
notizia di lui. C’è di piú. Dopo tante ricerche angosciose, suppliche e
istanze, è arrivata alla fine dal Comando della Colonia la comunicazione
ufficiale che il sottotenente Mochi Cesare, dopo un combattimento coi ribelli,
non trovandosi né tra i morti né tra i feriti né tra i prigionieri, di cui si è
riuscito ad aver notizia certa, deve ritenersi disperso, anzi scomparso
senz’alcuna traccia.
Il caso ha destato in principio molta pietà
in tutti i vicini e conoscenti di quella mamma e di quelle tre sorelle. A poco
a poco però la pietà s’è raffreddata ed è cominciata invece una certa
irritazione, in qualcuno anche una vera indignazione per questa che pare “una
commedia”, della camera cioè tenuta cosí puntualmente in ordine, finanche con
la camicia da notte stesa sul letto rimboccato; quasi che con questa “commedia”
quelle quattro donne vogliano negare il tributo di lagrime a quel povero
giovine e risparmiare a se stesse il dolore di piangerlo morto.
Troppo presto han dimenticato vicini e
conoscenti che essi, proprio essi, all’arrivo della comunicazione del Comando della
Colonia, quando quella madre e quelle tre sorelle s’eran pur messe a piangere
morto il loro caro levando grida strazianti, le han persuase a lungo e con tanti
argomenti uno piú efficace dell’altro a non disperarsi cosí. Perché piangerlo
morto – hanno detto – se chiaramente in quella comunicazione s’annunziava che l’ufficiale
Mochi tra i morti non s’era trovato? Era disperso; poteva ritornare da un
momento all’altro: ma anche dopo un anno, chi sa! Nell’Africa, ramingo,
nascosto… E sono stati pur essi a sconsigliare e quasi impedire che quella
madre e quelle tre sorelle si vestissero di nero, come volevano anche
nell’incertezza. — No, di nero — hanno detto; perché quel malaugurio? E alla
prima speranza di quelle poverine che s’esprimeva ancora in forma di dubbio:
«Chi sa… sí, forse è vivo», si sono affrettati a rispondere:
— Ma sarà vivo sí! È vivo certamente!
Ebbene, non è naturale adesso che, mancando
davvero ogni fondamento di certezza alla supposizione che il loro caro sia
morto, e accolta invece, come tutti hanno voluto, l’illusione che sia vivo,
quella povera mamma inferma, quelle tre sorelle diano quanto piú possono consistenza
di realtà a questa illusione? Ma sí, appunto, lasciando la camera in attesa,
rifacendola con cura minuziosa, traendo ogni sera dal sacchetto la camicia da notte
e stendendola su le coperte rimboccate. Perché, se si son lasciate persuadere a
non piangerlo morto, a non disperarsi della sua morte, devono per forza far
vedere a lui, vivo per loro, a lui che veramente può sopravvenire da un momento
all’altro, che ecco, tanto esse ne sono state certe, che gli hanno finanche
preparato ogni sera la camicia da notte lí sul letto, sul suo lettino rifatto
ogni mattina, come se egli davvero la notte vi abbia dormito. Ed ecco là le nuove
pantofole che Margheritina, aspettando, non si è contentata soltanto di
ricamare, ma ha voluto anche far mettere sú da un calzolajo, perché egli appena
tornato le trovi pronte al posto delle vecchie.
Scusate tanto:
— O che non son forse morti il vostro figliuolo,
la vostra figliuola, quando sono partiti per gli studii nella grande città
lontana? Ah, voi fate gli scongiuri? mi date sulla voce, gridando che non sono
morti nient’affatto? che saran di ritorno a fin d’anno e che intanto ricevete
puntualmente loro notizie due volte la settimana?
Calmatevi, sí, via, lo credo bene. Ma come
va che, passato l’anno, quando il vostro figliuolo o la vostra figliuola ritornano
con un anno di piú dalla grande città, voi restate stupiti, storditi davanti a
loro; e voi, proprio voi, con le mani aperte come a parare un dubbio che vi sgomenta,
esclamate:
— Oh Dio, ma sei proprio tu? Oh Dio, come
s’è fatta un’altra!
Non solo nell’anima, un’altra, cioè nel
modo di pensare e di sentire; ma anche nel suono della voce, anche nel corpo
un’altra, nel modo di gestire, di muoversi, di guardare, di sorridere…
E, con smarrimento, vi domandate:
— Ma come? erano proprio cosí i suoi occhi?
Avrei potuto giurare che il suo nasino, quand’è partita, era un pochino
all’insú… La verità è che voi non riconoscete nel vostro figliuolo o nella
vostra figliuola, ritornati dopo un anno, quella stessa realtà che davate loro
prima che partissero. Non c’è piú, è morta quella realtà. Eppure voi non vi
vestite di nero per questa morte e non piangete… ovvero sí, ne piangete, se vi
fa dolore quest’altro che vi è ritornato invece del vostro figliuolo,
quest’altro che voi non potete, non sapete piú riconoscere.
Il vostro figliuolo, quello che voi
conoscevate prima che partisse, è morto, credetelo, è morto. Solo l’esserci d’un
corpo (e pur esso tanto cambiato!) vi fa dire di no. Ma lo avvertite bene, voi,
ch’era un altro, quello partito un anno fa, che non è piú ritornato.
Ebbene, precisamente come non ritorna piú
alla sua mamma e alle sue tre sorelle questo Cesarino Mochi partito da due anni
per la Tripolitania e colà distaccato nel Fezzan.
Voi lo sapete bene, ora, che la realtà non
dipende dall’esserci o dal non esserci d’un corpo. Può esserci il corpo, ed
esser morto per la realtà che voi gli davate. Quel che fa la vita, dunque, è la
realtà che voi le date. E dunque realmente può bastare alla mamma e alle tre
sorelle di Cesarino Mochi la vita ch’egli seguita ad avere per esse, qua nella
realtà degli atti che compiono per lui, in questa camera che lo attende in
ordine, pronta ad accoglierlo tal quale egli era prima che partisse.
Ah, non c’è pericolo per quella mamma e per
quelle tre sorelle ch’egli ritorni un altro, com’è avvenuto per il vostro
figliuolo a fin d’anno. La realtà di Cesarino è inalterabile qua nella sua
camera e nel cuore e nella mente di quella mamma e di quelle tre sorelle, che
per sé, fuori di questa, non ne hanno altra.
— Tittí, quanti ne abbiamo del mese? —
domanda dal seggiolone la mamma inferma all’ultima delle tre figliuole.
— Quindici, — risponde Margherita, alzando
il capo dal libro; ma non ne è ben certa e domanda a sua volta alle due
sorelle: — Quindici, è vero?
— Quindici, sí, — conferma Nanda, la
maggiore, dal telajo.
— Quindici, — ripete Flavia che cuce.
Su la fronte di tutt’e tre s’incide, per
quella domanda della madre a cui hanno risposto, la stessa ruga.
Nella quiete della vasta sala da pranzo
luminosa, velata da candide tendine di mussolo, è entrato un pensiero, che di
solito, non per istudio, ma istintivamente è tenuto lontano dalle quattro
donne: il pensiero del tempo che passa.
Le tre sorelle hanno indovinato il perché
di questo pensiero pauroso nella mente della madre inferma, abbandonata sul
seggiolone; e perciò han corrugato la fronte.
Non è già per Cesarino.
C’è un’altra, c’è un’altra – non qua, nella
casa, ma che della casa, forse domani, chi sa! potrebbe essere la regina – Claretta,
la fidanzata del fratello – c’è lei, sí, purtroppo, che fa pensare al tempo che
passa.
La mamma, domandando a quanti si è del
mese, ha voluto contare i giorni che son passati dall’ultima visita di
Claretta.
Veniva prima ogni giorno la cara bambina
(bambina veramente, Claretta, per quelle tre sorelle anziane) quasi ogni
giorno, con la speranza che fosse arrivata la notizia; perché era certa, piú
certa di tutte, lei, che la notizia sarebbe presto arrivata. E allora entrava
festosa nella camera del fidanzato e vi lasciava sempre qualche fiore e una
lettera. Sí, perché seguitava a scrivere lei, come al solito, ogni sera, a
Cesarino. Le lettere, invece di spedirle, ecco, veniva a lasciarle qua perché
le trovasse, Cesarino, subito appena arrivato.
Il fiore avvizziva, la lettera restava.
Pensava forse Claretta, nel trovare sotto
il fiore vizzo la lettera del giorno precedente, che anche il profumo di questa
era svanito senz’avere inebriato nessuno? La riponeva nel cassetto della
piccola scrivania presso la finestra, e al suo pasto lasciava la nuova e sopra
vi posava un fiore nuovo.
Durò a lungo, per mesi e mesi, questa cura
gentile. Ma un giorno la piccina venne, con piú fiori, sí, ma senza lettera.
Disse che aveva scritto la sera precedente, oh anche piú a lungo del solito, e
che ogni sera avrebbe seguitato a scrivere, ma in un taccuino, perché la mamma le
aveva fatto notare ch’era un inutile sciupío di carta da lettere e di buste.
Veramente era cosí: ciò che importava era
il pensiero di scrivere ogni giorno; che poi scrivesse in carta da lettere o
nel taccuino, era lo stesso.
Se non che, con quella lettera cominciò
anche a mancare la visita giornaliera di Claretta. Dapprima tre volte, poi due,
poi prese a venire una sola volta per settimana. Poi, con la scusa del lutto
per la morte della nonna materna, stette piú di quindici giorni senza venire. E
alla fine, – quando non spontaneamente, ma condotta dalle sorelle – rientrò per
la prima volta, vestita di nero, nella camera di Cesarino, avvenne una scena
inattesa, che per poco non fece scoppiare d’angoscia il cuore di quelle tre poverine.
Tutt’a un tratto, cosí vestita di nero, appena entrata, si rovesciò sul lettino
bianco di Cesarino, rompendo in un pianto disperato.
Perché? che c’entrava? Rimase stordita,
come smarrita, dopo, di fronte allo stupore angoscioso, al tremore di quelle
tre sorelle pallide, livide; disse che non sapeva lei stessa come era stato,
come le era avvenuto… Si scusò; ne incolpò il suo abito nero, il dolore per la
morte della nonna… Riprese, a ogni modo, a venire una volta la settimana.
Ma le tre sorelle provavano ora un certo
ritegno a condurla nella camera in attesa; ed ella né c’entrava da sé, né
chiedeva alle tre sorelle che ve la conducessero. E di Cesarino quasi non
parlavano piú.
Tre mesi fa, venne di nuovo vestita di
abiti gaj, primaverili, risbocciata come un fiore, tutta accesa e vivace come
da gran tempo le tre sorelle e la loro povera mamma non l’avevano piú veduta.
Recò tanti, tanti fiori e volle lei stessa con le sue mani portarli nella
camera di Cesarino e distribuirli in vasetti su la piccola scrivania, sul
tavolino da notte, sul cassettone. Disse che aveva fatto un bel sogno.
Rimasero con l’affanno, oppresse e quasi
sgomente di quella vivacità esuberante, di quella rinata gajezza della bambina,
le tre sorelle sempre piú pallide e piú livide. Sentirono, appena cessato il
primo stordimento, come l’urto d’una violenza crudele, l’urto della vita che
rifioriva prepotente in quella bambina e che non poteva piú esser contenuta nel
silenzio di quell’attesa, a cui esse con le religiose cure delle loro mani
gracili e fredde davano ancora e tenacemente volevano dar sempre una larva di
vita, tanta che bastasse a loro. E non fecero nessuna opposizione, quando
Claretta, facendosi rossa rossa, disse che le era nata una grande curiosità di
sapere che cosa aveva scritto a Cesarino nelle sue prime lettere di piú d’un
anno fa, chiuse nel cassetto della scrivania.
Piú di cento dovevano essere quelle
lettere, centoventidue o centoventitré. Le voleva rileggere; le avrebbe poi
conservate lei, per Cesarino, insieme coi taccuini. E a dieci per volta se
l’era tutte riportate a casa. Da allora le visite si sono diradate. La vecchia
mamma inferma, guardando fiso il bracciolo del seggiolone, conta i giorni che
son passati dall’ultima visita; ed è curioso, che tanto per lei, quanto per le
tre figliuole con la fronte corrugata, questi giorni s’assommino e si facciano troppi,
mentre per Cesarino che non torna, il tempo non passa mai; è come se fosse
partito jeri, Cesarino, anzi come se non fosse partito affatto, ma fosse solo
uscito di casa e dovesse rientrare da un momento all’altro, per sedersi a
tavola con loro e poi andare a dormire nel suo lettino lí pronto.
Il crollo è dato alla povera mamma dalla
notizia che Claretta s’è rifatta sposa. Era da attendersela, questa notizia,
poiché già da due mesi, Claretta non si faceva piú vedere. Ma le tre sorelle, meno
vecchie e perciò meno deboli della mamma, s’ostinano a dire di no, che questo
tradimento non se l’aspettavano. Vogliono a ogni costo resistere al crollo, esse,
e dicono che Claretta s’è fatta sposa con un altro, non perché Cesarino sia
morto ed ella non abbia perciò veramente nessuna ragione piú d’aspettarne
ancora il ritorno, ma perché dopo sedici mesi s’è stancata d’aspettarlo. Dicono
che la loro mamma muore, non perché il nuovo fidanzamento di Claretta le abbia
fatto crollare l’illusione sempre piú fievole del ritorno del suo figliuolo, ma
per la pena che il suo Cesarino sentirà, al suo ritorno, di questo crudele
tradimento di Claretta.
E la mamma, dal letto, dice di sí, che
muore di questa pena; ma negli occhi ha come un riso di luce.
Le tre figliuole glieli guardano, quegli
occhi, con invidia accorata. Ella, tra poco, andrà a vedere di là se lui c’è;
si leverà da quest’ansia della lunghissima attesa; avrà la certezza, lei; ma
non potrà tornare per darne l’annunzio a loro.
Vorrebbe dire, la mamma, che non c’è
bisogno di questo annunzio, perché è già certa lei che lo troverà di là, il suo
Cesarino; ma no, non lo dice; sente una grande pietà per le sue tre povere
figliuole che restano sole qua e hanno tanto bisogno di pensare e di credere
che Cesarino sia ancora vivo, per loro, e che un giorno o l’altro debba
ritornare; ed ecco, vela dolcemente la luce degli occhi e fino all’ultimo, fino
all’ultimo vuol rimanere attaccata all’illusione delle tre figliuole, perché
anche dal suo ultimo respiro quest’illusione tragga alito e seguiti a vivere
per loro. Con l’estremo filo di voce sospira:
— Glielo direte che l’ho tanto aspettato…
Nella notte i quattro ceri funebri ardono
ai quattro angoli del letto, e di tratto in tratto hanno un lieve scoppiettío che
fa vacillare appena la lunga fiamma gialla. Tanto è il silenzio della casa, che
gli scoppiettii di quei ceri, per quanto lievi, arrivano di là alla camera in attesa,
e quella candela ingiallita, da sedici mesi confitta sul trifoglio della bugia,
quella candela derisa dalle due figurine smorfiose della scatola di fiammiferi,
ad ogni scoppiettío pare che abbia un sussulto da cui possa trar fiamma anche
lei, per vegliare un altro morto qui, sul letto intatto.
È per quella candela una rivincita.
Difatti, quella sera, non è stata cambiata l’acqua della boccetta, né tratto
dal sacchetto e stesa sulle coperte rimboccate la camicia da notte. E segna la
data di jeri il calendario a muro.
S’è arrestata d’un giorno, e pare per
sempre, nella camera, quell’illusione di vita.
Solo il vecchio orologio di bronzo sul
cassettone séguita cupo e piú sgomento che mai a parlare del tempo in quella
buja attesa senza fine.
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