Il duetto tra Luciano Pavarotti e George Michael, nella canzone di Elton John e Bernie Taupin (scritta nel 1974), al «Pavarotti & Friends 2000 concert for Cambodia and Tibet».
Riportiamo in seguito i versi italiani con una traduzione in greco.
[...]
È tardi ormai, come farò a salvarmi
Ci proverò, ma tu non cambierai
Che errore è mai, cercare di aiutarti
Ma tu vai, e resto qui, senza me
Είναι πια αργά, πώς να με σώσω
Θα δοκιμάσω, αλλά εσύ δεν θ' αλλάξεις
Πού είναι άραγε το λάθος, να γυρεύω να σε βοηθήσω
Αλλά εσύ φεύγεις, και μένω εδώ, χωρίς εμένα
[...]
I can't find oh, the right romantic line
... non vorrei, ma non resisto più
... δεν θα ήθελα, αλλά δεν αντέχω άλλο
don't discard me just because you think I mean your harm
... io respirerò e d'amore rinascerò
... εγώ θ' ανασαίνω και από αγάπη θα ξαναγεννηθώ
Fa che non sia mai più così
Se quando cerco me
Ritrovo un uomo che non c'è
Continuerò a cercarmi fino a che,
Mi troverò
E ogni giorno sarà come se rinascessi un po'
Κάνε να μην είναι ποτέ πια έτσι
Αν όταν γυρεύω εμένα
Βρίσκω έναν άνθρωπο που δεν υπάρχει
Θα συνεχίσω να με αναζητώ μέχρι
Να βρω τον εαυτό μου
Και κάθε μέρα θα είναι σαν να ξαναγεννιέμαι λίγο
but losing ev'rything is like the sun going down on me
Natale,
Capodanno, Befana, quando verso il quindici di dicembre comincio a
sentire parlare di feste, tremo, come a sentir parlare di debiti da
pagare e per i quali non ci sono soldi. Natale, Capodanno, Befana,
chissà perché le hanno messe tutte in fila, così vicine, queste
feste. Così in fila, non sono feste, ma, per un poveraccio come me,
sono un macello. E qui non si dice che uno non vorrebbe festeggiare
il Santo Natale, il primo dell’anno, l’Epifania, qui si vuol dire
che i commercianti di roba da mangiare si appostano in quelle tre
giornate come tanti briganti all’angolo della strada, così che,
alle feste, uno ci arriva vestito e ne esce nudo. Forse ai tempi che Berta filava,
Natale, Capodanno e Befana erano feste sul serio, modeste ma sincere:
ancora non c’erano l’organizzazione, la propaganda, lo
sfruttamento. Ma dagli, dagli e dagli, anche i più sciocchi si sono
accorti che con le feste si poteva fare la speculazione; e così,
adesso la fanno. Feste per i furbi, dunque, che vendono roba da
mangiare; non per i poveretti che la comprano. E tante volte ho
pensato che per il pasticciere, per il pollarolo, per il macellaio,
quelle sono feste davvero, anzi feste doppie: feste perché feste e
poi feste perché in quelle feste loro vendono dieci volte tanto
quanto nei giorni che non c’è festa. E così, mentre il
disgraziato festeggia le feste a mezza bocca, con la borsa vuota e la
tavola scarsa, quelli le festeggiano sul serio, con la borsa piena e
la tavola traboccante.
Del
resto, per farvi capaci che ho detto la verità,
guardate la strada dove ho la mia bottega di cartolaio. In fila, uno
dopo l’altro, ci sono Tolomei il pizzicagnolo, De Santis il
pollarolo, De Angelis che ha il vapoforno, e Crociani che ha la
fiaschetteria. Fateci caso, che vedete? Montagne di formaggi e di
prosciutti, stragi di polli e gallinacci, sacchi pieni di tortellini,
piramidi di fiaschi e di bottiglie, luce e splendore, gente che va e
gente che viene, dalla mattina alla sera, senza interruzione, come in
un porto di mare, nelle prime quattro botteghe. Nella mia
cartolibreria, invece, silenzio, ombra, calma, la polvere sul banco,
e, sì e no, qualche ragazzino che viene a comprarsi il quaderno,
qualche donna che entra a prendersi la boccetta d’inchiostro per
fare i conti della spesa. E io rassomiglio alla mia bottega, vestito
di uno zinale nero, magro, affamato, con addosso l’odore della
polvere e della carta, sempre acido, sempre pensieroso; e loro,
invece, De Angelis, Tolomei, Crociani, De Santis, sono tutto il
ritratto dei loro affari che vanno tanto bene, belli, rossi, grassi,
con la voce sicura, sempre allegri, sempre strafottenti. Eh, ho
sbagliato mestiere; e con la carta stampata o bianca, c’è poco da
fare; e ne consumano più loro per involtare pacchi che io per far
leggere o scrivere.
Basta,
qualche giorno prima di Capodanno, mia moglie, una mattina, mi fa:
"Senti, Egisto, che bell’idea... Crociani ha detto che a
Capodanno ci riuniamo tutti e cinque noialtri commercianti di questa
parte della strada, e facciamo un picche nicche per la fine
dell’anno."
"Sì,
tradizionale, ma in questo modo: ciascuno porta qualche cosa e così
ciascuno offre a tutti e tutti offrono a ciascuno."
"Questo
è il picche nicche?"
"Sì,
questo è il picche nicche... De Angelis ci metterà i tortellini,
Crociani il vino e lo spumante, Tolomei gli antipasti, De Santis i
tacchini..."
"E
noi?"
"Noialtri
dovremmo portare il panettone."
Non
dissi nulla. E lei insistette: "Non è una bella idea questo
picche nicche?... Allora gli dico che ci stiamo?"
Stavo
seduto al banco, scartando un pacco di cartoline d’auguri natalizi.
Dissi, finalmente:
"Per
me, mi pare che questo picche nicche non sia tanto giusto... De
Angelis i tortellini ce li ha a bottega, e così Crociani il vino,
Tolomei gli antipasti e De Santis i tacchini... ma io che ci ho? Un
corno... il panettone debbo comprarlo."
"Che
c’entra?... anche loro, la roba la pagano, mica gli cresce in
bottega... che c’entra... lo vedi che sei sempre il solito... vuoi
sempre fare il difficile, ragionare, fare il sottile... e poi ti
lamenti che le cose non ti vanno bene."
Insomma
discutemmo un bel po’ e finalmente io tagliai corto, dicendo: "Va
bene, digli che ci sto al loro picche nicche... porteremo il
panettone." Lei si raccomandò, allora, che lo portassi bello
grosso, per non fare cattiva figura: due chili, almeno. E io promisi
il panettone bello e grosso.
L’ultimo
dell’anno lo passai, al solito, a vendere cartoline di auguri e
figurine di carta per i presepi. Intanto, i miei vicini vendevano
gallinacci e polli, tortellini e tagliatelle, cassette di liquori e
di vini pregiati, formaggi e prosciutti. Era una bella giornata e io,
dal fondo del mio negozietto nero, vedevo, di fuori, passare nel sole
le donne cariche di roba. Era proprio una bella giornata, da
Capodanno romano, con un cielo turchino, duro, che pareva il
cristallo fino fino e tutte le cose che sembravano dipinte su questo
cristallo, con i loro colori, A mia moglie, la sera, chiudendo
bottega, dissi: "È inutile che mangiamo... tanto la mangiata la
facciamo a mezzanotte con il picche nicche... non fosse altro che il
panettone che porto io... c’è da mangiare per cento." Ed
effettivamente, lo scatolone del panettone era proprio enorme. Però
dissi a mia moglie che non se ne occupasse: l’avrei portato io.
Alle
dieci e mezzo, entrammo nel portone di Crociani che aveva la casa
proprio sopra il negozio. I Crociani credo che ci abitassero da più
di cinquanta anni: ci aveva abitato il nonno quando la fiaschetteria
non era che un’osteriola dove gli operai andavano a bere il
quintino; il padre che l’aveva ingrandita vendendo il vino
all’ingrosso; adesso, ci stava Adolfo, il figlio che, oltre al
vino, vendeva anche il whisky e gli altri liquori stranieri. Era uno
di quegli appartamenti malandati della vecchia Roma, tutto corridoi e
stanzette; ma Crociani, un giovanotto con le guance gonfie e gli
occhi piccoli, ci guidò con orgoglio nella stanza da pranzo: salute
che bellezza. Tutti mobili nuovi, di mogano lucido, con le maniglie
di ottone e le zampette sottili di acero bianco. L’ultima volta che
l’avevo veduta, quella stanza, era ancora come in passato: con un
tavolone andante, le seggiole di paglia, le fotografie alle pareti,
e, nel vano della finestra, la macchina da cucire. Tutto questo,
adesso, non c’era più: oltre a quei mobili, notai un grande quadro
dorato con un tramonto sul mare; una radio enorme che serviva anche
da bar; soprammobili di porcellana in forma di donnine nude,
pagliaccetti, cagnolini; e, sulla tavola preparata, un servizio di
porcellana dei più fini, stampato a fiorami rosa. "L’ho
comprata all’Argentina" mi disse Crociani indicando la stanza,
"indovina un po’ quanto l’ho pagata." Dissi una cifra e
lui me la triplicò, gonfiandosi per la soddisfazione. Intanto
arrivava nuova gente; e presto fummo al completo.
Chi
c’era? C’era Tolomei, un pezzo di giovanotto coi baffi, che,
quando pesa sulla bilancia l’affettato, dice alle serve: "Lascio?";
c’era De Angelis del vapoforno, un ometto piccolo, con la faccia da
minchione: ma lui invece è un furbo che da ragazzino andava in giro
con la sporta e adesso invece vende tagliatelle a tutto il quartiere;
c’era De Santis, il pollarolo, che è rimasto contadino come al
tempo che veniva a Roma col panierino delle uova di giornata: con la
faccia senza peli, grigia e massiccia come una pagnotta e la parola
greve della gente del viterbese. C’erano le mogli loro, tutte
infronzolate, ma i figli non c’erano, perché, come disse Crociani
offrendo il vermut, questa era una serata tra commercianti, per
salutare l’anno che veniva, anno commerciale anzitutto, durante il
quale tutti dovevano fare quattrini a palate. Dico la verità,
vedendoli seduti a tavola, mi piacevano anche meno di quando li
vedevo sulle soglie delle botteghe: durante il commercio,
nascondevano la soddisfazione e, magari, anche, si lagnavano; ma
adesso che si trattava di far festa i clienti non c’erano, la
soddisfazione gli schizzava fuori dai pori.
Ci
mettemmo a tavola che erano le undici e attaccammo subito gli
antipasti di Tolomei. Qui cominciarono gli scherzi: chi chiedeva a
Tolomei se la mortadella era di vero suino, chi gli ricordava la
frase: "Lascio?" che lui diceva tanto spesso. Ma erano
tutti scherzi con la zampa di velluto, tra gente che se la intendeva
e si rassomigliava: se avessi scherzato io, che quegli antipasti me
li permettevo di rado, penso che gli avrei lasciato l’unghiata; e
perciò preferii mangiare e tacere. Ai tortellini si fece un po’ di
silenzio, anche perché il brodo scottava e tutti soffiavano nei
cucchiai. Ma qualcuno osservò che questi erano tortellini veramente
pieni e non mezzo vuoti come quelli che erano in vendita normalmente,
e tutti ci fecero una risata. Stetti zitto anche questa volta e mi
presi due scodelle colme di minestra per riscaldarmi la pancia.
Vennero, finalmente, due tacchini arrosto grandi come due struzzi; e,
anche per la grandezza, tutti si misero in allegria e cominciarono a
punzecchiare il pollarolo chiedendogli dove li avesse prenotati quei
due fenomeni della natura, se dal noto De Santis che forniva tutta
Roma. Ma lui, che era contadino e non capiva lo scherzo rispose che,
quei due tacchini, lui li aveva scelti tra cento e li aveva
ingrassati con le sue mani, tenendoli in casa.
Anche
questa volta non dissi nulla ma scelsi con cura una coscia grande
come un monumento, e poi tre fette di ripieno, e poi un altro pezzo
quadrato che non so dove l’avessero staccato, ma era buono anche
quello. Mangiavo tanto di gusto che qualcuno osservò "Guarda
Egisto come divora... eh, non ti succede tutti i giorni di mangiare
un tacchino simile, Egisto." Risposi a bocca piena: "Proprio
così"; e dentro di me pensai che, per una volta almeno, avevo
detto la verità.
Intanto
i fiaschi di Crociani circolavano, e tutte quelle facce intorno la
tavola lustravano, rosse e brillanti, come una batteria di rame da
cucina. Salvo, però, quelle frasi sulla roba da mangiare, nessuno
parlava veramente perché, in fondo, non avevano nulla da dirsi. Il
solo che ci avesse qualche cosa da dire ero io, appunto perché, al
contrario di loro, gli affari mi andavano male, e questo mi faceva
riflettere, e la riflessione, se non riempie la pancia, almeno
riempie il cervello. Finiti i tacchini, venne un’insalata che
nessuno toccò, poi il formaggio e la frutta, e quindi Crociani disse
che era mezzanotte e andò in giro per la tavola mostrando la
bottiglia di spumante, che, come fece notare, era autentico francese,
di quello che lui vendeva tremila lire e più la bottiglia. Sul
punto, però, di stappare lo spumante, tutti gridarono: "Egisto,
tocca a te, facci vedere il tuo panettone."
Io
mi alzai, andai in fondo alla stanza, presi la scatola del panettone,
tornai a sedere e lo scartai con solennità. Dissi, tanto per
cominciare: "Questo è un panettone proprio speciale... ora
vedrete." Aprii la scatola, misi la mano dentro e cominciai la
distribuzione: una boccetta d’inchiostro, una penna, un quaderno e
un abbecedario per uno, ad ognuno degli uomini; per le donne, come
dissi, mi scusavo, non ci avevo pensato. Davanti a questa
distribuzione, tutti tacevano sbalorditi; non capivano, anche perché
erano intontiti dal vino e dal mangiare.
Finalmente,
De Angelis disse: "Ma, Egisto, abbi pazienza, che è sto
scherzo? Mica siamo bambini che andiamo a scuola." De Santis,
che pareva abbrutito, domandò: "E il panettone dov’è?"
Io risposi, alzato in piedi: "Questo è un picche nicche, non è
vero? Ciascuno ha portato la roba che ci aveva a bottega, non è
vero... e io vi ho portato quello che ci avevo: inchiostro, penna,
quaderno, abbecedario."
"Ma
che" disse ad un tratto Tolomei, "sei scemo o ci fai?"
"No"
risposi, "non sono scemo ma cartolaio... tu hai portato gli
antipasti che io sono costretto a comprarti tutto l’anno... io ho
portato quello che ci avevo e che tu mai ti sogni di comprare".
De Angelis disse, conciliante: "Basta, mettiti a sedere, non
facciamoci cattivo sangue." E questa fu la proposta che venne
accolta. Saltarono fuori alcuni dolci, le bottiglie furono stappate,
e tutti bevvero.
Ma,
come notai, al brindisi nessuno volle bere alla mia salute. Allora mi
alzai e dissi, il bicchiere in mano: "Visto che non volete bere
alla mia salute, il brindisi lo faccio io... Che possiate dunque,
durante questo anno, leggere un po’ più, anche se, per caso,
doveste vendere un po’ meno." Ci fu un coro di proteste e poi
Crociani, che aveva bevuto più degli altri, si inferocì e gridò:
"Ma piantala, iettatore... ci porti sfortuna... vendi i libri a
chi ti pare ma non venirci a seccare a noi... anzi, guarda, è meglio
che te ne vai... tanto, ormai, il cenone l’hai mangiato."
"Allora"
risposi "tu non vuoi bere alla salute del commercio dei libri?"
"Ma
piantala, buffone, scemo, ignorante, pagliaccio." Ora tutti mi
ingiuriavano; io rispondevo per le rime, calmo, sebbene mia moglie mi
tirasse per la manica; il più cattivo di tutti era proprio il
padrone di casa che insisteva affinché ce ne andassimo.
Insomma,
non so come, mi ritrovai in strada, con un gran freddo, e con mia
moglie che piangeva e ripeteva: "Lo vedi che hai fatto... ora ci
siamo fatti dei nemici e l’anno che verrà sarà peggio di quello
che è finito." Così,
discutendo, tra i botti delle lampadine fulminate e i cocci che
volavano dalle finestre, ce ne tornammo a casa.
«È opinione generale che NikosKazantzakis sia stato scomunicato dal Santo Sinodo della Chiesa di Grecia. No. Non c’è stata una scomunica, lo dico e lo scrivo da trent’anni a questa parte».
Pàtroklos Stavrou [Πάτροκλος Σταύρου], la voce più autorevole sulla persona e l’opera dell’autore cretese, nell’appendice dell’edizione greca del 2010 de «L’ultima tentazione» (p. 538).
Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono coll’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia. Meno violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette.... che non sono le ultime. Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato: «Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studi di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!». Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. M’ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benchè ridotta in un matraccio. Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo. Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge. Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco? Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perchè è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che significano oggi quei propositi Come quell'igienista vecchio, descritto dal Goldoni vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita? Una volta, allorchè da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perchè le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perchè essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo più possibile di formarne in quel luogo degli altri. Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su sè stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perchè accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ più lontano. Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori più varii ed anche ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede più ingenua, trovava adeguata espressione nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato al proponimento anteriore. Certe date erano da me preferite per la concordanza delle cifre. Del secolo passato ricordo una data che mi parve dovesse sigillare per sempre la bara in cui volevo mettere il mio vizio: «Nono giorno del nono mese del 1899». Significativa nevvero? Il secolo nuovo m’apportò delle date ben altrimenti musicali: «Primo giorno del primo mese del 1901». Ancora oggi mi pare che se quella data potesse ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita. Ma nel calendario non mancano le date e con un po’ d’immaginazione ognuna di esse potrebbe adattarsi ad un buon proponimento. Ricordo, perchè mi parve contenesse un imperativo supremamente categorico, la seguente: «Terzo giorno del sesto mese del 1912 ore 24». Suona come se ogni cifra raddoppiasse la posta. L’anno 1913 mi diede un momento d’esitazione. Mancava il tredicesimo mese per accordarlo con l’anno. Ma non si creda che occorrano tanti accordi in una data per dare rilievo ad un’ultima sigaretta. Molte date che trovo notate su libri o quadri preferiti, spiccano per la loro deformità. Per esempio il terzo giorno del secondo mese del 1905 ore sei! Ha un suo ritmo quando ci si pensa, perchè ogni singola cifra nega la precedente. Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di Pio IX alla nascita di mio figlio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito ferreo proposito. Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli anniversarii lieti e tristi nostri e mi credono tanto buono! Per diminuire l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: «mai più» Ma dove va l’atteggiamento se si tiene la promessa? L’atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.
Sostiene Pereira che erano tre uomini vestiti con abiti civili e che erano armati di pistole. Il primo che entrò era un magrolino basso con dei baffetti e un pizzo castano. Polizia politica, disse il magrolino basso con l'aria di quello che comandava, dobbiamo perquisire l'appartamento, cerchiamo una persona. Mi faccia vedere il suo tesserino di riconoscimento, si oppose Pereira. Il magrolino basso si rivolse ai suoi due compagni, due tangheri vestiti di scuro, e disse: ehi, ragazzi, avete sentito, che ve ne pare? Uno dei due puntò la pistola contro la bocca di Pereira e sussurrò: ti basta questa come riconoscimento, grassone? Via ragazzi, disse il magrolino basso, non mi trattate così il dottor Pereira, lui è un bravo giornalista, scrive su un giornale di tutto rispetto, magari un po' troppo cattolico, non lo nego, ma allineato sulle buone posizioni. E poi continuò: senta dottor Pereira, non ci faccia perdere tempo, non siamo venuti per fare quattro chiacchiere, e perdere tempo non è il nostro forte, e poi sappiamo che lei non c'entra, lei è una brava persona, semplicemente non ha capito con chi aveva a che fare, lei ha dato fiducia a un tipo sospetto, ma io non voglio metterla nei guai, ci lasci solo fare il nostro lavoro. Io dirigo la pagina culturale del Lisboa, disse Pereira, voglio parlare con qualcuno, voglio telefonare al mio direttore, lui lo sa che siete a casa mia? Via, dottor Pereira, rispose il magrolino basso con voce melliflua, le pare che se facciamo un'azione di polizia avvisiamo prima il suo direttore, ma che discorsi fa? Ma voi non siete la polizia, si ostinò Pereira, non vi siete qualificati, siete in borghese, non avete nessun permesso per entrare in casa mia. Il magrolino basso si rivolse di nuovo ai due tangheri con un sorrisetto e disse: il padrone di casa è ostinato, ragazzi, chissà cosa bisogna fare per convincerlo. L'uomo che teneva la pistola puntata contro Pereira gli dette un poderoso manrovescio e Pereira barcollò. Dai, Fonseca, non fare così, disse il magrolino basso, non devi maltrattare il dottor Pereira, altrimenti me lo spaventi troppo, lui è un uomo fragile, nonostante la mole, si interessa di cultura, è un intellettuale, il dottor Pereira deve essere convinto con le buone, altrimenti si piscia sotto. Il tanghero che si chiamava Fonseca mollò un altro manrovescio a Pereira e Pereira barcollò di nuovo, sostiene. Fonseca, disse sorridendo il magrolino basso, tu sei troppo manesco, io devo tenerti a bada altrimenti mi rovini il lavoro. Poi si rivolse a Pereira e gli disse: dottor Pereira, come le ho detto non ce l'abbiamo con lei, siamo solo venuti a dare una piccola lezione a un giovanotto che sta in casa sua, una persona che ha bisogno di una piccola lezione perché non conosce quali sono i valori della patria, li ha smarriti, poveretto, e noi siamo venuti per farglieli ritrovare. Pereira si strofinò la guancia e mormorò: qui non c'è nessuno. Il magrolino basso si dette un'occhiata intorno e disse: senta, dottor Pereira, ci faciliti il compito, al giovanotto ospite suo noi dobbiamo solo chiedere delle cose, gli faremo solo un piccolo interrogatorio e faremo in modo che recuperi i valori patriottici, non vogliamo fare di più, siamo venuti per questo. E allora mi faccia telefonare alla polizia, insistette Pereira, che vengano loro e che lo portino in questura, è lì che si fanno gli interrogatori, non in un appartamento. Via, dottor Pereira, disse il magrolino basso con il suo sorrisetto, lei non è affatto comprensivo, il suo appartamento è l'ideale per un interrogatorio privato come il nostro, la sua portiera non c'è; i suoi vicini sono andati a Oporto, la serata è tranquilla e questo palazzo è una delizia, è più discreto di un ufficio di polizia.
Poi fece un cenno al tanghero che aveva chiamato Fonseca e costui spinse Pereira fino in sala da pranzo. Gli uomini guardarono intorno ma non videro nessuno, solo la tavola apparecchiata con i resti del cibo. Una cenetta intima, dottor Pereira, disse il magrolino basso, vedo che avete fatto una cenetta intima con le candele e tutto, ma che romantico. Pereira non rispose. Senta, dottor Pereira, disse il magrolino basso con l'aria melliflua, lei è vedovo e donne non ne frequenta, come vede so tutto di lei, non è che le piacciono i ragazzi giovani, per caso? Pereira si passò di nuovo la mano sulla guancia e disse: lei è una persona infame, e tutto questo è infame. Via, dottor Pereira, continuò il magrolino basso, ma l'uomo è uomo, lo sa bene anche lei, e se un uomo trova un bei giovanotto biondo con un bel culetto la cosa è comprensibile. E poi, con tono duro e deciso, riprese: dobbiamo metterle a soqquadro la casa o preferisce venire a patti? È di là, rispose Pereira, nello studio o in camera da letto. Il magrolino basso dette degli ordini ai due tangheri. Fonseca, disse, non avere la mano troppo pesante, non voglio problemi, ci basta dargli una lezioncina e sapere quello che vogliamo sapere, e tu, Lima, comportati bene, so che hai portato il manganello e che lo tieni sotto la camicia, ma ricordati che sulla testa non voglio colpi, semmai sulle spalle e sui polmoni, che fanno più male e non lasciano tracce. D'accordo comandante, risposero i due tangheri. Entrarono nello studio e richiusero la porta dietro di loro. Bene, disse il magrolino basso, bene, dottor Pereira, facciamo due chiacchiere mentre i due assistenti fanno il loro lavoro. Io voglio telefonare alla polizia, ripetè Pereira. La polizia, sorrise il magrolino basso, ma la polizia sono io, dottor Pereira, o per lo meno ne sto facendo le veci, perché anche la nostra polizia la notte dorme, sa, la nostra è una polizia che ci protegge tutto il santo giorno, ma la sera va a dormire perché è esausta, con tutti i malfattori che ci sono in giro, con tutte le persone come il suo ospite che hanno perso il senso della patria, ma mi dica, dottor Pereira, perché si è messo in questo pasticcio? Non mi sono messo in nessun pasticcio, rispose Pereira, ho solo assunto un praticante per il Lisboa. Certo, dottor Pereira, certo, disse il magrolino basso, ma lei però doveva prendere prima informazioni, doveva consultare la polizia o il suo direttore, dare le generalità del suo presunto praticante, permette che prenda una ciliegia sotto spirito?
Pereira sostiene che a quel punto si alzò dalla seggiola. Si era messo a sedere perché sentiva il cuore in gola, ma a quel punto si alzò e disse: ho sentito delle grida, voglio andare a vedere cosa succede in camera mia. Il magrolino basso gli puntò la pistola. Al suo posto non lo farei, dottor Pereira, disse, i miei uomini stanno facendo un lavoro delicato e per lei sarebbe sgradevole assistere, lei è un uomo sensibile, dottor Pereira, è un intellettuale, e poi soffre di cuore, certi spettacoli non le fanno bene. Voglio telefonare al mio direttore, insistette Pereira, mi lasci telefonare al mio direttore. Il magrolino basso fece un sorriso ironico. Il suo direttore adesso sta dormendo, replicò, magari sta dormendo abbracciato a una bella donna, sa, il suo direttore è un uomo vero, dottor Pereira, un uomo con i coglioni, non è come lei che cerca i culetti dei giovanotti biondi. Pereira si sporse in avanti e gli dette uno schiaffo. Il magrolino basso, di scatto, lo colpì con la pistola e Pereira cominciò a sanguinare dalla bocca. Questo non doveva farlo, dottor Pereira, disse l'uomo, mi hanno detto di aver rispetto per lei, ma tutto ha un limite, se lei è un imbecille che riceve sovversivi in casa non è colpa mia, io potrei piantarle una pallottola in gola e lo farei anche volentieri, non lo faccio solo perché mi hanno detto di usarle rispetto, ma non abusi, dottor Pereira, non abusi, perché potrei perdere la pazienza.
Pereira sostiene che a quel punto udì un altro grido soffocato e che si lanciò contro la porta dello studio. Ma il magrolino basso lo fronteggiò e gli dette una spinta. La spinta fu più forte della mole di Pereira, e Pereira indietreggiò. Senta, dottor Pereira, disse il magrolino basso, non mi costringa a usare la pistola, avrei una bella voglia di ficcarle una pallotto la in gola o magari nel cuore, che è il suo punto debole, ma non lo faccio perché qui non vogliamo morti, siamo venuti solo per dare una lezione di patriottismo, e anche a lei un po' di patriottismo farebbe bene, visto che sul suo giornale non pubblica altro che scrittori francesi. Pereira si mise di nuovo a sedere, sostiene, e disse: gli scrittori francesi sono gli unici che hanno del coraggio in un momento come questo. Lasci che le dica che gli scrittori francesi sono delle merde, disse il magrolino basso, andrebbero tutti messi al muro e dopo morti pisciarci sopra. Lei è una persona volgare, disse Pereira. Volgare ma patriottica, rispose l'uomo, non sono come lei, dottor Pereira, che cerca complicità negli scrittori francesi.
In quel momento i due tangheri aprirono la porta. Sembravano nervosi e avevano un'aria affannata. Il giovanotto non voleva parlare, dissero, gli abbiamo dato una lezione, abbiamo usato le maniere forti, forse è meglio filarcela. Avete fatto dei disastri?, chiese il magrolino basso. Non lo so, rispose quello che si chiamava Fonseca, credo che sia meglio andar via. E si precipitò alla porta seguito dal suo compagno. Senta, dottor Pereira, disse il magrolino basso, lei non ci ha mai visti in casa sua, non faccia il furbo, lasci perdere le sue amicizie, tenga presente che questa è stata una visita di cortesia, perché la prossima volta potremmo venire per lei. Pereira chiuse la porta a chiave e li sentì discendere le scale, sostiene. Poi si precipitò in camera da letto e trovò Monteiro Rossi riverso sul tappeto. Pereira gli dette uno schiaffetto e disse: Monteiro Rossi, si faccia forza, è passato tutto. Ma Monteiro Rossi non dette alcun segno di vita. Allora Pereira andò in bagno, inzuppò un asciugamano e glielo passò sul volto. Monteiro Rossi, ripetè, è tutto finito, sono andati via, si svegli. Solo in quel momento si accorse che l'asciugamano era tutto bagnato di sangue e vide che i capelli di Monteiro Rossi erano pieni di sangue. Monteiro Rossi aveva gli occhi spalancati e guardava il soffitto. Pereira gli dette un altro schiaffetto, ma Monteiro Rossi non si mosse. Allora Pereira gli prese il polso, ma nelle vene di Monteiro Rossi la vita non scorreva più. Gli chiuse quegli occhi chiari spalancati e gli coprì il volto con l'asciugamano. Poi gli distese le gambe, per non lasciarlo così rattrappito, gli distese le gambe come devono essere distese le gambe di un morto. E pensò che doveva fare presto, molto presto, ormai non c'era più tanto tempo, sostiene Pereira.